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Il Medio Evo e L'Età Moderna

Dall’epoca delle pievi alle incursioni dei pirati “barbareschi”

L’area compresa fra Cesenatico e Rimini, per centinaia d’anni, fu un territorio senza volto e senza storia, dove piccoli nuclei rurali conducevano un’esistenza di stenti, cercando di difendere le magre terre coltivabili, a fatica conquistate, dall’invadenza dei boschi e dall’irruenza delle acque. Poi apparvero le pievi. Così fu che nei cosiddetti “secoli bui” e nell’alto medioevo le famiglie sparse sulla pianura, fra i torrenti Uso e Rubicone, e a ridosso del mare si strinsero attorno alla pieve “Sancti Martini in Bordunclo”, quale centro organizzativo di vita religiosa e civile, e trovarono poi riparo in un villaggio fortificato citato in antichi documenti come “Castrum Libani”. Il nome compare per la prima volta in un testo del 1023, mentre il fondo Libano o Libiano si trova menzionato in diverse pergamene fino all’ XI secolo, con denominazione “curtis”, grande azienda presso cui dovevano essere consegnati i canoni in natura dagli affittuari di altri piccoli fondi.
Dove fosse ubicato questo Castrum è ancora questione controversa.
Castello Conte Piero Spina (oggi Benelli), cartolina storica, Laboratorio di documentazione e ricerca sociale
Alcuni lo collocano là dove oggi sorge il cosiddetto “castello” Benelli, sulla strada per San Vito, edificato nella seconda metà dell’Ottocento dai conti Spina; altri sembrano ritenere, non solo sulla scorta di prove documentali dell’alto medioevo, ma anche di successive testimonianze scritte databili fra il ‘500 ed il ‘700, che “Castrum Libani” si trovasse su un fondo appartenente alla Chiesa di Ravenna e situato sul litorale tra le foci dell’Uso e del Rubicone. Forse si trattava di quella “gran torre”, i cui resti a poca distanza dal mare furono segnalati in una relazione inviata a Papa Sisto V da Pietro Ghislieri, Legato di Romagna dal 1578. Di un altro “castrum” denominato “Abbatis”, cioè Castellabate, si trova traccia a partire dal 1152, a testimonianza di ulteriori insediamenti nella zona. Di queste realtà fortificate, punto di riferimento per le proprietà circostanti, si parla fino alla fine del ’200.
La storia dell’agro bellariese in età medievale è ancora costellata di tanti interrogativi. Ha contribuito a far chiarezza lo studioso riminese Oreste Delucca.
Nel tracciare una mappa della tipologia di insediamenti umani su questo territorio in base alla documentazione disponibile, egli ha evidenziato come dal punto di vista politico-amministrativo Rimini fosse capoluogo e sede del vicariato malatestiano, le aree attorno alla città e tutta la fascia costiera, da Bellaria a Cattolica, costituissero il cosiddetto “bargellato”, territorio sottoposto alle magistrature cittadine, e le restanti aree territoriali, fra le quali il contado, fosse suddiviso in castelli, nella loro accezione basso-medievale, ossia equivalenti a paesi fortificati, con una propria autonomia amministrativa e magistrature cittadine. Nel bargellato non erano presenti castelli, mentre vi si possono individuare “ville”, paesi privi di cinta muraria, e “tombe”, piccole fortificazioni presso le quali la popolazione si rifugiava e cercava protezione in caso di pericolo. Eventualità, questa, tutt’altro che rara in un’epoca di “ferro e fuoco” come quella del basso medioevo.
Attraverso l’analisi di alcuni documenti si può quindi ipotizzare che tra la fine del XIII e quella del XV secolo, il nome di Bellaria fosse Uso, poi Tomba dell’Uso, infine Tomba di Bellaria; non è mai chiamata Castrum Usis (Castello dell’Uso). Con questo nome risultano invece due altre località: una situata nel territorio del Montefeltro, l’altra vicinissima a Poggio Berni.
La “Descriptio Romandiole” del 1371, del resto, parla di un Castrum Usi, ponendolo assieme a Poggio Berni e Scorticata, mentre fa menzione di una Villa tumbae Bellaeris, collocandola insieme a Bordonchio e Donegallia.
Ricostruzione del Castello medievale di Bellaria, Cecilia Coppola, 1994
Nel medioevo le caratteristiche ambientali di queste terre, in cui dominavano acque e boschi, potrebbero aver favorito la costruzione di molini azionati ad acqua. Uno di questi viene rintracciato già nel 1281 nella zona di Castellabate. Altre fonti riconducibili alla metà del XIII secolo riferiscono, inoltre, di un processo continuo di abbattimento delle selve, per recuperare terreni da destinare a coltivazioni oppure alla costruzione di case o capanne, con il conseguente stanziamento della popolazione.
A fine ’400 è documentata più volte l’esistenza di fornaci a Donegallia, Bordonchio e a Bellaria stessa e, sempre per soffermarsi sulle attività economiche, di almeno due osterie nelle vicinanze di Bellaria, una alla foce dell’Uso, l’altra alla foce del Fiumicino.
A quel tempo – ricorda Delucca – le osterie ricoprivano un ruolo rilevante ai fini della mobilità di merci e persone, poiché chi le gestiva acquisiva anche l’eventuale diritto sul servizio di trasporto e attraversamento del fiume vicino, in un’epoca in cui i corsi d’acqua avevano una portata maggiore rispetto a quella odierna, e i pochi ponti spesso erano semplici passerelle non praticabili con un carico. Con il passare dei secoli la storia del distretto di Bellaria–Bordonchio e quella della famiglia dei Malatesti s’incrociarono in più punti. Sin dagli albori delle fortune di questa gloriosa casata, che grazie ad un’abile politica di matrimoni ed approfittando delle lotte interne al comune fra la fazioni guelfa, seppe guadagnare prestigio e ricchezza. Nel 1295 i Malatesti presero il potere a Rimini, con l’aiuto della parte guelfa, del papa e di consorterie di nobili e popolani.
Dalla metà del ’300, a Bellaria esistevano fortificazioni appartenenti ai Malatesti, i quali avevano cominciato ad acquistare alcune proprietà.
Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417 - 1468)
Il “Codice Pandolfesco” indica la contrada “Tumba Uxii que nunc vocatur Tumba de Belajere” (Tomba dell’Uso ora chiamata Tomba di Belajere). La tomba dell’Uso, distrutta nel 1382 da Alberico da Barbiano e ricostruita da Andrea Malatesta, nel ’400, fu dimora di Sigismondo Pandolfo Malatesta e della madre Antonia di Barignano, all’epoca signora di Bellaria.
Attraverso la documentazione pervenutaci ne conosciamo vari elementi: la loggia, la camera di Sigismondo, la camera e la sala della madre; si fa riferimento anche ad un cortile, ad un fossato e ad una strada che porta alla “cella”, forse la chiesa di Santa Margherita, ancor oggi esistente, seppur rimaneggiata, che prese il nome da Margherita Paltanieri, terza moglie di Malatesta da Verucchio detto il “centenario” (1213-1313), cui recò in dote svariati possedimenti.
Sontuosa residenza ove i signori di Rimini trascorrevano piacevoli giornate dedicandosi alla caccia, alla pesca ed a ricevere personaggi d’alto lignaggio, il palazzo di Bellaere vide il transito di ospiti illustri, tra i quali, come vuole la leggenda, Papa Gregorio XII, che sbarcato al porto di Cesenatico nel 1414 (secondo altre fonti l’episodio va fatto risalire al 1412) fu accolto da Carlo Malatesta e condotto a palazzo, dove il giorno successivo il pontefice incontrò il clero ed il popolo non solo di Rimini ma anche del contado.
Chiesa di Santa Margherita, interno, ricordo di Papa Gregorio XII, Silvia Cesari, 2018
Le notizie sulla “Tumba” si fermano qui. Tra il 1500 e il 1503 si parla di una casa costruita dall’altra parte della strada, e di ulteriori case. Dell’antica dimora malatestiana non un cenno. Poi nel 1630 rispunta l’ombra del vecchio castello di Bellaria, delle cui pietre qualcuno proponeva l’acquisto. Evidentemente l’edificio era stato demolito e smontato ed i mattoni posti in vendita.
Il tramonto della signoria malatestiana, fra XV e XVI secolo, si tinse di rosso. La campagna bellariese subì le stesse sorti del capoluogo di Rimini, passato ripetutamente di mano dai Malatesti al papato.
Nel 1500 fu Alessandro VI a tentare di chiudere i conti una volta per tutte con la riottosa casata riminese, spedendo in Romagna il figlio, Cesare Borgia
Il “Valentino”, alla testa delle sue truppe, mise a ferro e fuoco questa terra, riportandola sotto il controllo di Roma.
Tuttavia ci sarebbero voluti ancora alcuni anni di rivolgimenti e turbolenze politiche prima che anche l’ultimo discendente del “Mastin Vecchio” abbandonasse Rimini, per non farvi più ritorno (1528). E sulla strada per Venezia avrebbe fatto sosta a Bellaere.
Lo Stato della Chiesa detenne il controllo di questa terra quasi ininterrottamente, salvo una breve parentesi di governo della Repubblica di Venezia, sino all’occupazione napoleonica. Il ritorno dei delegati pontifici, negli anni della Restaurazione, si protrasse poi fino alla nascita del Regno d’Italia.
Le zone costiere, oltre ad essere inospitali ed insalubri, furono insidiate per secoli dalle incursioni della pirateria musulmana che dai primi anni del ‘500 infestava il Mediterraneo.
Capo degli Uscocchi, C. Vecellio, 1598
Provenienti da una serie di piazzeforti situate in Africa settentrionale – regione chiamata dagli europei “Barberia” – i corsari “barbareschi”, arabi, berberi, turchi e rinnegati europei, spargevano terrore lungo le coste d’Italia, pur senza riuscire a spingersi, in Adriatico, oltre il litorale marchigiano e romagnolo. Alla loro minaccia si univa quella della marineria balcanica e ungherese. Riportano le cronache che il villaggio bellariese, ancora sprovvisto di difesa, fu attaccato dai corsari per la prima volta il 15 aprile 1568, giorno di Venerdì Santo. I musulmani, abbordata una imbarcazione da pesca, risalirono il fiume Uso e irruppero nell’osteria della Posta facendo alcune vittime, ma – a quanto pare – la gente del luogo non si lasciò prendere dal panico e reagì violentemente provocando la morte di tredici aggressori. Al grave pericolo rappresentato dalle scorrerie corsare le autorità pontificie risposero erigendo, fra il 1673 ed il 1697, una grande torre d’avvistamento per rinforzare il dispositivo difensivo costiero. In quegli anni il governo pontificio decise di far costruire sette torri costiere “nei luoghi più esposti e soggetti alle invasioni dei pirati” e di organizzare milizie a piedi e a cavallo “che saranno destinate con una scelta particolare al servizio, alla guardia ed alla custodia della spiaggia predetta”.
Torre Saracena, Maurizio Polverelli, 2017
I fortilizi avrebbero presidiato i seguenti punti strategici: la “punta” del fiume Tavollo, la foce del fiume Conca, il borgo d’Arcione alle Fontanelle, “sotto la fonte detta d’Orlando”, la bocca del fiume Marano, il “fiume di Bellaria”, l’Abbadia di S. Giuliano di Rimini, “distante tre miglia circa dal suddetto sito di Bellaria”, “et un’ altra nella spiaggia della Marca tra Monte Santo e Recanati nel luogo detto l’Acquabuona”. (da M. L. De Nicolò, La costa difesa. Fortificazione e disegno del litorale adriatico pontificio, Fano 1998).
Sostanzialmente, sul litorale tra Cesenatico, Rimini e Cattolica, veniva innalzata una linea di torri in reciproca corrispondenza, in modo da garantire una più veloce trasmissione dei messaggi ed impedire eventuali sbarchi in tratti di spiaggia rimasti fino ad allora scoperti.
Due di queste torri venivano a collocarsi tra Cesenatico e Rimini e addirittura quattro si sarebbero dovute erigere tra Rimini e il promontorio di Focara.
I lavori procedettero a ritmo accelerato, anche per il rinnovarsi del pericolo di una avanzata turca verso l’occidente. L’attività di vigilanza, in effetti, proseguì per tutto il XVIII secolo. L’ultimo avvistamento di un possibile assalto dal mare avvenne il 19 luglio 1811, quando una nave nemica si avvicinò alla costa di Bellaria, ma senza approdare sulla terraferma.
Dalla seconda metà del Settecento, in un’epoca in cui si faceva largo una gestione più attenta e razionale del territorio, anche allo scopo di ricavare maggiori rendite agrarie da parte dei ceti possidenti, nel “distretto” di Bellaria – Bordonchio presero notevole impulso le attività di bonifica delle paludi.
Interventi che tuttavia non incisero sulla distribuzione delle terre, la cui proprietà rimase concentrata in poche mani.
L’ “ancien regime” in queste contrade, come in gran parte d’Italia sotto il dominio di sovrani ben poco illuminati, proseguì ben oltre la metà del XIX secolo. (Alessandro Agnoletti)

Per saperne di più:
Anna Falcioni (a cura di), Storia di Bellaria-Bordonchio-Igea Marina, Ricerche e studi sul territorio, Vol II, Ricerche e studi sugli abitanti in epoca malatestiana (1200 – 1500), Rimini, Ghigi, 1993.
Anna Falcioni ed altri, Storia di Bellaria-Bordonchio-Igea Marina, Ricerche e studi sul territorio (1500 – 1970), Vol. III, Rimini, Ghigi, 1994.
Luigi Vendramin (a cura di), La Torre di Bellaria e la difesa della costa in età moderna, Comune di Bellaria Igea Marina, 1998.

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