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Alfredo Panzini

(1863 - 1939)
Lo scrittore che amò e raccontò Bellaria e bellariesi


Alfredo Panzini nasce, “l’ultima ora dell’ultimo giorno dell’anno 1863”, a Senigallia, in casa del nonno materno, medico, dove la madre si era recata da Rimini in vista del parto. Il “romagnolo” Panzini ai natali marchigiani non attribuirà altro che una valenza meramente burocratica come ci racconta nella novella Nella terra dei Santi e dei poeti: “…poco dopo giungevamo a Senigallia ancora addormentata, e benché la traversassimo di corsa, io non mi dimenticai di buttarvi il mio biglietto di visita in memoria di esservi nato; cosa della quale io stesso mi ricordo solo quando devo scrivere su carta bollata anche il luogo di nascita”.
L’ambiente familiare che circonda i primi anni del piccolo Alfredo non è dei più sereni a causa delle ingenti perdite economiche della famiglia dovute alla distratta amministrazione e al morboso vizio del gioco del padre. L’amarezza e lo sconforto derivato da queste sfortunate vicende biografiche costituiscono lo spunto dell’antefatto del racconto La cagna nera, dove si narrano le conseguenze della decadenza di una famiglia della piccola nobiltà, sulla vita e sulla carriera del figlio. L’orrore e la paura per il gioco, “orgia notturna”, che le disgrazie paterne inculcarono nel Panzini, si riscontrano nel capitolo VIII de La Lanterna di Diogene, intitolato L’inno dei lavoratori. Panzini frequenta le scuole elementari a Rimini fino a quando, nel 1873, per intercessione di un per gli otto anni, tra il ginnasio e il liceo, necessari per il regolare conseguimento del diploma.
Alfredo Panzini, 1875
Il lungo soggiorno nel collegio veneziano fu un’esperienza davvero dolorosa per Panzini che contribuì in misura decisiva a sedimentare nel suo giovane spirito una concezione pessimista e fatalista della natura e della società umana che non abbandonerà persino quando sarà raggiunto dalla fama e dalla conseguente evoluzione sociale. Panzini conserverà per tutta la vita un tetro ricordo di quel periodo imputandogli di aver “assiderato il fiore della giovinezza”; nel corso della sua attività letteraria, tornerà in ben tre occasioni sulle esperienze della vita collegiale e sulle sofferenze psicologiche patite in quegli anni: la novella Il trionfo della penna d’airone del 1903, un brano squisitamente autobiografico, Memorie di scuola, pubblicato dalla rivista “Nuova Antologia” nel 1907 e un ultimo richiamo quasi trent’[]anni dopo nel primo capitolo de La sventurata Irminda!.
La prima di queste rievocazioni presenta dei risvolti decisamente drammatici, sintomatici per rintracciare l’origine del malcelato complesso d’inferiorità, che non l’abbandonò neppure nei tempi felici:
“Pensate, io, figlio di un modestissimo possidentuccio di campagna, trovarmi fra i camerati di cui uno era marchesino, l’altro contino, l’altro figlio di un generale, di un capo divisione, di un banchiere, di un ex ministro, di un milionario e via via![...] Quando risalimmo in camerata [dopo la visita dei genitori che portarono in dono al giovane Alfredo delle ricottine e un paio di scarpe invernali], il mio soprannome era già formato. Mia madre venne chiamata la ricottara, mio padre Crispinus ed io corame. La scoperta di questi tre nomi li divertì moltissimo per vari mesi…”
Oltre ad essere il teatro di questi traumatici episodi, particolarmente scioccanti per un ragazzo nel quale sin dalla prima adolescenza fiorì una complessa e multiforme sensibilità, il collegio fu odiato dal giovane Panzini, pure per la soffocante pedanteria del pedagogico, orgoglio della classe insegnante dell’epoca. Nonostante ciò, apprendiamo dal primo capitolo dell’Irminda, che il convitto, “falansterio deformatore dell’anima giovanile”, regalò a Panzini, anche qualche incontro proficuo per la sua futura attività di letterato. Ci riferiamo alle lezioni e alla frequentazione del professore e “allevatore di anime” Giorgio Politeo, fondamentale per la maturazione morale ed etica della sua personalità, e dell’abate Manzoni, il quale gli rivelò la finalità edificante di cui è portatrice la grande letteratura.
Alfredo Panzini, in vacanza a Rimini, 1880
Ottenuta nel 1882 la licenza liceale “d’onore”, Panzini s’impegna nella ricerca di un impiego statale vedendo ben presto deluse le proprie attese; successivamente partecipa a Roma ad un concorso, “una specie di ludo olimpico intellettuale”, di lettere italiane, riservato ai migliori diplomati dell’anno scolastico alla presenza dell’allora ministro dell’istruzione Baccelli. Il giovane Panzini viene però escluso, a causa della prolissità ed dell’ampollosità del suo stile, dalla prova orale dal presidente della commissione esaminatrice, nientemeno che Giosuè Carducci.
Fallita questa opportunità, Panzini decide di iscriversi alla facoltà di lettere dell’università di Bologna, dove, finalmente libero dalla soffocante pedanteria della quasi totalità del corpo docenti del collegio, rimane folgorato dalle lezioni del Carducci e del filosofo platonico Francesco Acri. In quale misura la figura di Carducci impressionasse la sua fantasia artistica e la sua coscienza civile lo chiarisce Panzini stesso nell’appassionato saggio del1894 L’evoluzione di Giosuè Carducci, accorata difesa del sommo maestro da chi lo accusava di aver tradito i celebri trascorsi repubblicani in favore della causa monarchica.
Il libro è una miniera di suggestioni per chi volesse ripercorrere le tappe cruciali della formazione morale ed intellettuale di Panzini: l’ideale eroico, il valore civile e patriottico della lingua e della storia italiane, il divario avvilente tra gli eroi risorgimentali e la grettezza dei “modernissimi”, il tramonto della cultura umanistica e i pericoli derivanti dalla società di massa, sono temi già presenti in questo libro.
Giosue Carducci
Altro evento fondante della vita universitaria di Panzini è l’appassionata e tormentata relazione con Emma Scazzieri, detta Mimì1, costumista e poi attrice della compagnia comica di Alfredo Testoni di cui si innamorò al punto da proporle in un paio di occasioni il matrimonio. L’incontro con questa “sartina che odorava tutta di paciulì”2, fu decisivo nel suggellare nella fantasia dello scrittore l’immagine ossessiva della donna moderna emancipata, seduttrice e avversa alle antiche consuetudini. La centralità di questa giovanile avventura amorosa nella vita di Panzini, è attestata dalla sistematica frequenza con la quale viene ricordata nel suo lavoro. Dopo i primi due brevi racconti (Il trionfo delle rose e I guanti bianchi), che rievocavano nostalgicamente la vita bolognese di quegli anni, Panzini tornerà in opere più impegnate e ambiziose sulla storia d’amore con Mimì dal Viaggio di un povero letterato fino a La pulcella senza pulcellaggio.

Nel Viaggio Panzini non esce certo signorilmente dal confronto con la vecchia fiamma, ritrovata fortuitamente proprio nella stessa Bologna che funse da compiacente sfondo al loro rapporto, palesando un malcelato rancore per il rifiuto sofferto in passato, e schernendo per di più accidiosamente le velleità poetiche dell’attrice, la quale gli aveva gentilmente chiesto un parere da professionista su alcune sue composizioni.
Terminati nel 1886 gli studi con una tesi, per la quale si meritò la lode e una nota di merito del Carducci, su Folengo e la poesia maccheronica, che sarà pubblicata l’anno seguente, Panzini si dedica, con alterne fortune, all’insegnamento. Rifiutata, a causa delle pressioni della madre preoccupata dell’influenza della disinvolta Mimì sul figlio, la cattedra di un ginnasio bolognese, Panzini accetta la destinazione di Castellamare di Stabia, una sede che, se da una parte gli risultò sgradita e gli procurò difficoltà d’ambientamento, dall’altra ebbe almeno il merito di ispirargli La cagna nera, il suo racconto più inquieto e straniante che risente delle appassionate letture giovanili di Edgar Allan Poe.
Dopo aver insegnato un anno nella terza classe del ginnasio di Imola, conscio del suo valore, chiede a Carducci di essere trasferito in una grande città, ottenendo la seconda classe al ginnasio Parini di Milano dove insegnerà, malgrado varie richieste di trasferimento, fino al 1917.
Alfredo Panzini, insegnante di lettere, 1890 circa
Trascorsi otto anni in quella scuola, Panzini cerca la promozione alle classi superiori di quel liceo e per convincere il ministro Baccelli, si arma delle lettere di raccomandazione prima di Carducci, il quale porta all’attenzione dell’autorità il fatto che Panzini fosse stato uno dei suoi migliori allievi a Bologna, e in seguito addirittura del presidente del Consiglio Francesco Crispi. Difficile a credersi, ma questi autorevolissimi appoggi furono vani e la cattedra fu assegnata per anzianità ad un altro aspirante.

Secondo osservatori quali Renato Serra e Clemente Rebora, si deve risalire a queste vicissitudini, che dovevano risultare particolarmente penose ed umilianti agli occhi di un giovane educato nel culto degli eroi e degli ideali della letteratura classica, per comprendere lo scetticismo nella portata rivoluzionaria dell’arte e la “prospettiva nichilista” che contraddistingue la prima narrativa di Panzini.
Nell’estate del 1889 Panzini fu protagonista di un episodio che stride con l’immagine remissiva e sottomessa che abbiamo fin qui delineato; infatti, si scontrò in un duello alla sciabola, da cui uscì sconfitto e lievemente ferito, con un giornalista locale, colpevole di aver scritto un articolo, corredato da una caricatura canzonatoria, che ironizzava sulle pose da damerino in cui si esibiva Panzini per attirare le attenzioni delle giovani villeggianti che affollavano le spiagge di Rimini.
Alfredo Panzini
Nel 1890 Panzini si sposa con Clelia Gabrielli, insegnante di disegno, dalla quale avrà quattro figli (l’ultimo, Umbertino, al quale sono dedicate Le fiabe della virtù morì all’età di dieci anni); nello stesso esordisce come curatore di antologie scolastiche, con una scelta di scritti del Fiorenzuola, seguiti l’anno successivo da una silloge delle poesie di Tibullo ed Orazio e, nel 1892, da un’edizione scolastica de le Bucoliche di Virgilio. Dopo le prime esperienze editoriali, Panzini è maturo per il debutto nella narrativa che avviene con la violenta rampogna antimodernista Il Libro dei Morti, un’opera che non poteva certo suscitare gli entusiasmi di una società ormai totalmente dedita alla venerazione dogmatica e fideistica de le “magnifiche sorti e progressive”. Nel 1896 Panzini comincia un’importante collaborazione, fondamentale per cominciare a farsi conoscere dal grande pubblico, con la rivista L’illustrazione italiana, periodico paragonabile per diffusione agli Espresso e ai Panorama dei giorni nostri, grazie alla quale inizia un decennale e proficuo rapporto di lavoro e d’amicizia con uno degli editori più importanti dell’epoca, Emilio Treves. L’anno seguente Panzini aggiunge all’insegnamento di lettere al liceo “Parini”, quello al Politecnico di Milano, seguito a breve dall’incarico di professore d’italiano agli stranieri al Circolo filologico. L’invito ad insegnare al Politecnico gli era pervenuto dal senatore Francesco Brioschi che, sebbene avesse concepito la scuola come un vivaio per la formazione dei futuri capitani d’industria, riteneva utile offrire agli studenti una solida preparazione umanistica. Giuseppe Mormino, uno dei primi biografi del Panzini, spiega che i giovani del Politecnico trascuravano lo studio dell’”italiano” perché reputato superfluo per la loro formazione tecnica. L’arrivo di Panzini cambiò le cose: “Alla prima lezione ebbe il normale uditorio che da sbandato e svagato si fece subito attento. Alla seconda l’aula fu piena anche di allievi del corso superiore. Gli studenti chiassatori tacquero e, sorpresi e stupiti, si conciliavano in religioso silenzio con l’inutile materia secondaria”.
Tra 1899 e il 1992 Panzini si dedica con sempre maggior intensità all’attività narrativa, pubblicando in rapida successione La moglie nuova, Lepida et Tristia e Piccole storie del mondo grande, primo volume edito da Treves. Emilio Treves, omaggiato da Panzini con l’affettuoso ritratto de Viaggio con la giovane ebrea, fu fondamentale per l’affermazione dello scrittore, di cui perseverò a pubblicare le opere anche a seguito delle vendite ben poco incoraggianti dei primi libri.
Alfredo Panzini con la moglie Clelia e la figlia Matilde, 1916
Sempre in quegli anni comincia il sodalizio con la rivista di lettere, scienze ed arti Nuova Antologia, su cui pubblicherà a puntate gran parte delle sue opere.

Nel 1901 Giovanni Pascoli include la novella La bicicletta di Ninì nella seconda edizione della sua antologia scolastica Sul limitare; a conferma della stima del poeta, questi gli scrive nello stesso anno una lettera in cui lamentandosi non vedrà mai la luce, di rivista politico-letteraria.
È del 1905 la prima edizione del fortunatissimo e controverso Dizionario moderno3, inizialmente concepito da Panzini come una semplice raccolta di neologismi e forestierismi penetrati nella lingua italiana ma poi diventato un’integrazione ai vocabolari tradizionali. Il dizionario ebbe un grandissimo successo di pubblico in quanto nella definizione dei lemmi rifuggiva dal tono solenne e asettico, tipico del rigore scientifico dei suoi concorrenti, arricchendo e condendo le voci con commenti, battute di spirito e aneddoti4, che si ispiravano a fatti, mode e costumi della vita quotidiana.

Passano un paio d’anni ed è la volta de La lanterna di Diogene, per molti il capolavoro panziniano, dove si parla della casetta costruita a Bellaria, meta delle sue vacanze estive, dove scriverà la maggioranza delle sue successive opere.
Il Dizionario Moderno, copertina
Forte dei primi successi editoriali Panzini cerca d’infittire la trama delle sue relazioni nell’ambiente letterario, come attesta la profonda amicizia, fino al 1912 soltanto epistolare, con il grande conterraneo Renato Serra5, che sarà troncata tragicamente dalla morte del critico, avvenuta sul fronte del Podgora, nei pressi di Gorizia, il 20 luglio del 1915. Panzini, nel Diario sentimentale della guerra, scrisse sull’amico alcune delle sue pagine più toccanti, commosse ed ispirate nelle quali ne ricostruisce, attraverso la rievocazione dei loro incontri, il troppo breve percorso umano e letterario6.
Il 1910 segna l’inizio della fortuna critica panziniana, in virtù della pubblicazione del fondamentale saggio di Serra e del panegirico di Emilio Cecchi apparso su La Voce. Di lì a poco cui altri storici vociani, quali Clemente Rebora e Giovanni Papini, contribuiranno a delineare lo status Collaborando in seguito egli stesso con la prestigiosa rivista7, comincia una corrispondenza con il direttore Giuseppe Prezzolini, seguita da quella con Marino Moretti. Leggendo questi carteggi, compreso quello con Serra, si nota che, come in questi anni, Panzini cercasse ossessivamente di garantirsi il maggior numero possibile di collaborazioni con riviste, giornali ed editori, sollecitando continuamente amici intercessioni e, considerato il loro prestigio, recensioni ai suoi lavori.
Nel frattempo escono Le fiabe della virtù (1911), primo sensibile successo, e Santippe (1914), un volume in cui si notano le prime concessioni di Panzini alla narrativa di consumo.
Nell’immediata vigilia del primo conflitto mondiale avvia la stesura di una serie di annotazioni sulla guerra che, protrattesi sino al 1918, saranno stampate tra il ’23 e il ’24.
da sx, Aldo Palazzeschi, Alfredo Panzini, Marino Moretti, 1934
Nel 1918 dopo ben trenta anni lascia la residenza milanese, e di conseguenza i suoi incarichi scolastici, per stabilirsi a Roma, dove insegnerà fino al 1924 all’Istituto Tecnico “Leonardo da Vinci”. Panzini afferma di aver lasciato l‘insegnamento al Politecnico non prima di sofferti ripensamenti sulla funzione della letteratura nella vita sociale. Lo scrittore ammette, infatti, che sebbene la materia fosse degnissima “tende a fare ingenui i giovani, raggentilisce troppo e contribuisce a indebolirli nella pratica della vita. Gli insegnamenti dei grandi pensatori servono ad aprir la porta del paradiso, quello vero, ma servono male nella vita”8. Queste frasi, che in bocca ad uno scrittore risuonano drammatiche, testimoniano che lo straziante dissidio interiore e il sensazione d’inutilità caratteristico dei personaggi panziniani fosse la proiezione artistica del rapporto realmente conflittuale dell’autore con la società del suo tempo.

Da questo momento si intensificano febbrilmente le collaborazioni con quotidiani e riviste9, in parallelo all’uscita di libri che riscuotono il crescente favore del pubblico: Il viaggio di un povero letterato (1919), Il diavolo nella mia libreria, Io cerco moglie (1920), Il mondo è rotondo, Signorine (1921) e il suo romanzo tecnicamente più riuscito, Il padrone sono me! (1922).

Nel 1924 Panzini si trasferisce al liceo “Mariani” e inizia il prestigioso sodalizio con il Corriere della Sera che, in forme sempre variegate e mutevoli (novelle, approfondimenti culturale e note di costume) durerà fino alla morte dello scrittore. A Rimini il 21 aprile dello stesso anno, alla presenza di Mussolini, tiene un discorso commemorativo in onore di Giovanni Pascoli.

L’anno seguente è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile.
Panzini aveva mostrato simpatie per Benito Mussolini sin dal suo distacco dal partito socialista, pur non condividendone l’interventismo durante la prima guerra mondiale, e vide, soprattutto agli inizi, nel fascismo un movimento di rinnovamento morale e spirituale della nazione. Infatti, alla voce “fascismo” si legge sul Dizionario: «Reazione prevalentemente giovanile contro la demagogia asservita al fanatismo bolscevico e tendente alla distruzione della patria». Citiamo due esempi dai quotidiani: «In treno abbiamo viaggiato fra un incredibile: Eia, eia, alalà. Moschetti, elmetti, pugnali, pistole! Esercito della giovinezza. Ben venga, dopo l’esercito della decrepitezza!» (in merito alla “marcia su Roma”) dal Giornale d’Italia del 9 dicembre 1922; «Mussolini, l’uomo più moderno che abbiamo in Italia» dal Corriere della Sera del 19 aprile 1928.
Alfredo Panzini
Nel 1927, dopo quaranta anni di insegnamento, si guadagna la meritata pensione che gli consente di dedicare buona parte dell’anno alla cura dei poderi acquistati nelle vicinanze della sua residenza estiva a Bellaria. Con l’acquisto di questi appezzamenti, Panzini realizza uno delle sue principali aspirazioni, lui che aveva sempre ritenuto la “terra” il bene più prezioso, sicuro e nobile che un uomo potesse desiderare10. Due anni più tardi da questa nuova prospettiva tratteggia ne I giorni del sole e del grano, una serie di quadri agresti di stampo realista con sparuta e subito demistificata concessione all’atmosfere dell’Arcadia che ripercorrono le diverse stagioni della campagna dalla mietitura al raccolto del grano; sempre nel 1929 è nominato “Accademico d’Italia”.
Circondata dal rispetto e dalla stima generale, l’esistenza di “sua Eccellenza” Panzini negli ultimi anni è scandita dalle uscite delle ultime opere: La sventurata Irminda (1932), l’appassionata difesa dell’amatissimo Boiardo dal titolo La bella storia d’Orlando innamorato e poi furioso (1933), Legione Decima, il libro che più s’avvicina alla propaganda fascista, Viaggio con la giovane ebrea (1934), e gli ultimi, rispettivamente nel ’36 e nel ’37, Il ritorno di Bertoldo e Il bacio di Lesbia. Ormai settantacinquenne, Panzini muore nella sua casa di Roma, stroncato da un male incurabile il 10 aprile 1939. Casa Panzini è stata restaurata e riaperta al pubblico nel dicembre 2006, divenendo Il Museo La Casa Rossa di Alfredo Panzini". (Alessandro Lucchi).
Museo “La Casa Rossa di Alfredo Panzini”, 2008
Per saperne di più
Alfredo Panzini, La Lanterna di Diogene, Milano, 1907.
Alfredo Panzini, Viaggio di un povero letterato, Milano,1919.
Alfredo Panzini, Il padrone sono me!, Milano 1922.
Alfredo Panzini, I giorni del sole e del grano, Milano, 1929.
Alfredo Panzini, Diario Sentimentale di Guerra, (Edizione aumentata con inediti dal manoscritto, a cura di Marco Antonio Bazzocchi) Bologna, Edizioni Pendragon, 2014.
Ennio Grassi (a cura di), Alfredo Panzini nella cultura letteraria italiana fra ‘800 e ‘900, Rimini, Maggioli, 1985.
Mariangela Lando (a cura di), Panzini scrittore europeo, Bologna, Edizioni Pendragon, 2014.
La Casa Rossa di Alfredo Panzini, Piccola guida, Comune di Bellaria Igea Marina, 2009.

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